Il latte contiene amminoacidi solforati che acidificherebbero il sangue

Il latte contiene amminoacidi solforati come la maggior parte delle fonti proteiche, siano esse animali o vegetali, anche se, le fonti animali ne contengono in maggiore quantità.
Se però andiamo ad analizzare con più dettaglio l’apporto di amminoacidi solforati ci si accorge facilmente che il latte è un alimento dal contenuto proteico certamente apprezzabile, ma non particolarmente alto, come altre fonti, dalla carne ai legumi.

Le due porzioni quotidiane raccomandate di latte, infatti, apportano poco più di 8 grammi di proteine (3,3 g %), che rappresentano circa il 10% se non meno del fabbisogno proteico “minimo” di un adulto e non possono certamente essere accusate come responsabili di dieta iperproteica. Molti altri alimenti, anche di origine vegetale (legumi, frutta secca in guscio), apportano quantità superiori di proteine, anche se di qualità inferiore e dal costo calorico superiore.

Se consideriamo poi la quantità di amminoacidi solforati di un’intera giornata alimentare si può vedere con estrema chiarezza che anche in questo caso sono altri gli alimenti, soprattutto vegetali, che apportano la maggiore quantità di amminoacidi solforati. Considerando infatti la quantità di amminoacidi solforati presenti in una giornata alimentare sul modello delle Linee Guida per una sana alimentazione italiana [12], anche scegliendo solamente alimenti vegetali, si può vedere (tabella 1) che per una razione calorica media di 2000 kcal/d, la quota giornaliera di amminoacidi solforati proveniente dalla porzione di pasta o riso, dalle quattro porzioni di pane, dalle due porzioni di vegetali, da una porzione di legumi e da una di frutta secca in guscio, supera abbondantemente la quota apportata da una tazza di latte.

Il latte provocherebbe perdite di calcio urinarie
Il modo di classificazione degli alimenti in base alla loro capacità di aumentare il carico acido renale prende le mosse da un lavoro del 1995 nel quale si riteneva di poter misurare il totale carico acido alimentare, tramite la misura indiretta di un indice, il PRAL (potenziale carico acido renale), calcolato attraverso la misura di alcuni ioni nelle urine [13].

La misura cioè della concentrazione urinaria di Cloro, Solfato, Fosfato, Calcio e Magnesio avrebbe dovuto rappresentare la fotografia del carico acido complessivo della dieta. Secondo la formula (figura 2) lo zero corrisponde alla neutralità, valori positivi sono spia di acidità, valori negativi al contrario di alcalinizzazione. Benché il latte non risulti particolarmente acidificante, poiché prossimo alla neutralità (0.7) e che altri alimenti lo siano maggiormente (piselli 1.2; spaghetti 6.5; nocciole 6.8), forse perché l’accostamento con l’acidità è particolarmente suggestivo, da allora è frequente, anche in ambiente medico, accostare il latte all’acidificazione del sangue ed alla perdita di osso.

Tuttavia le evidenze scientifiche non supportano questa ipotesi e in particolare dimostrano che il fosfato e il solfato non sono dannosi per l’osso in quanto il calcio urinario non è correlato al contenuto di calcio dell’osso [14] e il fosfato di per sé non ha impatto negativo sul metabolismo dell’osso [15]. Non solo, è stato osservato che la somministrazione di due differenti pasti, uno contenente proteine da soia, l’altro contenente proteine da latte avevano lo stesso carico acido renale (Fig. 1) ma due impatti differenti sulla calciuria, maggiore quest’ultima nel gruppo che aveva assunto proteine del latte. La maggiore presenza di calcio nell’urina tuttavia non era dovuta a per-dite di calcio dall’osso [16].

La spiegazione del fenomeno risulta evidente quando si valuti la frazione di assorbimento del calcio alimentare attraverso studi con isotopi stabili o radioattivi del calcio. Questi studi mettono in evidenza che le proteine, soprattutto se di derivazione animale, migliorano l’assorbimento intestinale del calcio e l’aumento di calciuria che provocano è dovuto essenzialmente a questo, poiché al tempo stesso la quota urinaria di calcio di provenienza ossea è molto ridotta [17]. Lo stesso succede quando una dieta ad alto contenuto di proteine viene ottenuta utilizzando solamente proteine animali (carne).

Due differenti diete, una al 20% dell’energia ottenuta con 297 g/d di carni (rosse e bianche) e una normoproteica (0,94 g/kg) al 12% dell’energia con 45 g/d di carne non hanno mostrato alcuna perdita di calcio urinario, né alcuna modifica di indicatori di rimaneggiamento osseo. La dieta a maggiore apporto proteico, anzi, ha mostrato un aumento, se pur leggero, della ritenzione del calcio e, come concludono gli stessi autori, “… questi risultati sono in contrasto con la credenza di lunga data che un elevato apporto di carne influisce negativamente sull’omeostasi del calcio e sulla salute dell’osso”, credenza per altro mai dimostratasi vera” [18].

Per concludere, latte e prodotti lattiero caseari forniscono preziosi nutrienti, specialmente calcio, potassio e magnesio, estremamente importanti in nutrizione umana ed estremamente critici per i livelli abitualmente assunti dalla popolazione. Sono una fonte a basso costo energetico (2,6 mg di calcio per kcal di latte parzialmente scremato, contro 0,39 mg/kcal delle mandorle, 0,43 mg/kcal dei ceci o 0,33 mg/kcal delle lenticchie) e a basso prezzo.
Non solo i prodotti lattiero caseari non sono nocivi per l’osso ma anzi aiutano a raggiungere quel picco di massa ossea che poi costituirà la riserva di calcio per la vita futura. Ma addirittura un’altra condizione nella quale il consumo di latte può tornare molto utile è proprio il mantenimento della massa ossea che molto spesso è messo a rischio dalla perdita di peso che un regime ipocalorico può com-portare. Se una dieta lievemente iperproteica (40% carboidrati, 30% grassi e 30% proteine) contenente 3 porzioni quotidiane di latticini A, vie-ne comparata ad una dieta egualmente ipocalorica ma con suddivisione dell’energia di tipo mediterraneo (55% carboidrati, 30% grassi e 15% pro-teine) e contenente 2 porzioni quotidiane di latticini, dimostra una migliore capacità nel preservare il contenuto minerale dell’osso [19].

Bibliografia

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Autore: ANDREA GHISELLI

Comitato scientifico