In relazione al tema affrontato in questo articolo, abbiamo intervistato il dott. DOMENICO SOMMARIVA, noto studioso di lipidi e dislipidemie, vicepresidente della Sezione Lombarda della Società Italiana per lo Studio dell‟Arteriosclerosi.

Dottor Sommariva, quando si parla di dieta e malattie cardiovascolari si pensa subito ai grassi, ma perché i carboidrati raffinati potrebbero avere un ruolo addirittura più rilevante?

I carboidrati raffinati determinano un rapido aumento della glicemia e dell’insulina che è l’ormone necessario per l‟utilizzo del glucosio da parte dei muscoli e del fegato. Glicemia alta e insulina alta sono ambedue fattori di rischio per l’arteriosclerosi ben noti da tempo.

In più, la cronica esposizione dell’organismo ad elevati livelli di insulina contribuisce ad un fenomeno che va sotto il nome di insulino-resistenza, cioè per ottenere lo stesso effetto sul glucosio ci vogliono livelli sempre più alti di insulina.

La conseguenza dell‟insulino-resistenza è duplice. Una è immediata e consiste in alterazioni metaboliche complesse tra cui spicca l‟aumento dei trigliceridi e la diminuzione del colesterolo HDL, il cosiddetto colesterolo buono.

Anche questi sono due ben noti fattori implicati nell‟arteriosclerosi.

L’altra conseguenza è più tardiva ed è l’esaurimento del pancreas che con il tempo non è più in grado di far fronte con un aumentata produzione di insulina alle richieste crescenti dell’organismo.  Da qui si sviluppa il diabete. Si pensa che l’insulino-resistenza sia alla base della sindrome metabolica di cui si è parlato molto in questi ultimi tempi.

In poche parole, cos’è?

La sindrome metabolica è un insieme di fattori di rischio per l‟arteriosclerosi. Per identificarla, devono essere presenti nello stesso soggetto almeno tre su cinque di questi fattori: obesità centrale (circonferenza vita maggiore di 94 cm negli uomini e di 80 cm nelle donne), pressione arteriosa anche solo poco più alta del desiderabile (130/85), trigliceridi nel sangue maggiori di 150 mg/dl, colesterolo HDL minore di 40 mg/dl negli uomini e di 50 mg/dl nelle donne, glicemia maggiore di 100 mg/dl. Possono essere solo modeste variazioni rispetto ai valori desiderabili, ma nell’insieme aumentano la probabilità di malattia cardiovascolare di 2-3 volte.

La sindrome metabolica è una condizione frequente?

Molto frequente. Una stima prudente indica che oltre il 30% della popolazione adulta ne sia affetta.  Ma ci aspettiamo che diventi sempre più frequente in parallelo all’aumento dell‟obesità che è una delle condizioni centrali della sindrome e, secondo alcuni, ne è anche l’elemento principale.

Nel caso quindi di sindrome metabolica, quale sembra essere la dieta ideale?

Sulla dieta da seguire nella sindrome metabolica si è detto molto, senza giungere ad una conclusione. Su una cosa tutti sono d’accordo.  Il primo passo deve essere il controllo del peso, dato che la maggioranza dei portatori di sindrome metabolica è obesa.

Quanto al tipo di dieta, i più sostengono che non debba essere a basso contenuto di grassi, bensì di carboidrati. La dieta a basso contenuto di grassi, aumentando per compenso la quota di carboidrati, porterebbe ad un incremento dei trigliceridi e ad una diminuzione del colesterolo HDL.  A questo proposito ci sono dati molto interessanti risalenti a qualche anno fa.

Alcuni studi sostengono che latte e latticini riducono la tendenza all’obesità, all’ insulino – resistenza e alla sindrome metabolica. Un dato di particolare interesse è quello riportato da Mozaffarian (5) che ha rilevato in donne che per lo più erano affette da sindrome metabolica o che presentavano un’alterazione dei grassi nel sangue, quali aumento del colesterolo e dei trigliceridi, una minore progressione di lesioni coronariche se la loro dieta era relativamente ricca di saturi (10,6-16,0%) ed una progressione maggiore se la loro dieta era più ricca in carboidrati.

E gli acidi grassi saturi?

I dati di cui disponiamo evidenziano che è bene mantenere l’apporto di acidi grassi saturi entro il 10% delle calorie giornaliere a meno che non ci siano condizioni patologiche che richiedano accorgimenti dietetici specifici. Non dobbiamo però sostituire i grassi saturi con troppi carboidrati, soprattutto se raffinati.

In realtà non esistono regole valide per tutti. Gli effetti positivi o negativi dell’alimentazione risentono di variabili individuali, tra cui importantissimo è l’assetto genetico.

La risposta all’alimentazione, sia dal punto di vista qualitativo, sia da quello quantitativo, è, almeno in parte, geneticamente predeterminata. È sotto l’occhio di tutti che ci sono persone che tollerano benissimo diete ipercaloriche e non ingrassano, altri che stanno molto attenti a ciò che mangiano ed hanno tendenza ad aumentare di peso.

I primi hanno ereditato dai propri genitori geni che fanno consumare molto, i secondi hanno un corredo genetico “risparmioso” che consente di vivere con poco cibo e di accumulare facilmente l’eccedenza sotto forma di grasso.

Studi recenti hanno stimato che le cause dell’obesità sono ascrivibili per oltre il 50% alle caratteristiche genetiche, la restante metà a cause comportamentali, in particolare eccesso di cibo e sedentarietà.

La stessa cosa si può dire per il colesterolo. Alcuni tollerano bene anche discreti quantitativi di grassi saturi e colesterolo, altri rispondono con un esagerato aumento del colesterolo nel sangue che li pone a rischio di malattie cardiovascolari.

Se a questo aggiungiamo altre caratteristiche individuali come per esempio la presenza di sindrome metabolica o un’alterazione del colesterolo e dei trigliceridi, è facile comprendere come il grado di rischio rappresentato dai grassi saturi sia estremamente variabile.

Ma gli acidi grassi saturi sono tutti uguali?

Alcuni acidi grassi saturi sono assimilabili, dal punto di vista metabolico, ai monoinsaturi che non fanno aumentare il colesterolo. Per esempio l’acido stearico. È presente nelle carni animali e anche nel latte vaccino in cui rappresenta circa l’11-12% dei grassi totali.

Un aspetto ancora poco esplorato è che gli acidi grassi non sono semplici veicoli di energia, ma hanno anche funzioni regolatorie complesse.

In particolare interagiscono con alcune strutture situate nel nucleo delle cellule denominate PPAR (peroxisome proliferator-activated receptors) che hanno la funzione di regolare l’espressione dei geni contenuti nel DNA. In altri termini, semplici sostanze alimentari possono modulare l’informazione che i geni trasmettono all’organismo.  Questo potrebbe spiegare perché gli stessi alimenti possano evocare effetti diversi tra individuo e individuo.

È corretto penalizzare il latte intero ed i formaggi per il loro contenuto di grassi quando in realtà apportano una ampia gamma di nutrienti?

Noi non ci nutriamo di proteine, carboidrati e grassi, ma di alimenti che oltre a contenere una o più di queste sostanze nutritive ne apportano anche altre e l’insieme può avere un effetto differente da quello determinato dai singoli costituenti.

Tra le componenti del latte e dei latticini c’è per esempio il calcio. Al calcio, oltre la ben nota azione sul metabolismo delle ossa, viene attribuito un effetto antiaterosclerotico e la carenza di vitamina D con la relativa riduzione del calcio è entrata a far parte della numerosa schiera dei fattori di rischio per l‟arteriosclerosi.

Alcuni studi attribuiscono al calcio anche un effetto di riduzione della obesità e addirittura della mortalità, ma è ancora troppo presto per esprimersi su questi argomenti.

Come deve essere quindi, in sintesi, la dieta salvacuore?

In questo momento il favore è rivolto alla dieta mediterranea, cioè ad un modello di alimentazione che dovrebbe rispecchiare la dieta dei nostri vecchi che si alimentavano, quando potevano, con cereali, leguminose, frutta, verdura, qualche volta pesce o carne, olio di oliva e vino.

Anche il latte ed i formaggi erano presenti nell’alimentazione abituale, soprattutto in quelle zone dove era più fiorente la pastorizia e l‟allevamento.

In altre parole poche proteine, in gran parte di origine vegetale, molti carboidrati complessi, un moderato apporto di grassi soprattutto monoinsaturi, tante fibre vegetali e un po‟ di alcool.

I vari modelli di dieta mediterranea proposti oggi rispecchiano in larga misura quella tradizionale, con alcune varianti che riguardano per lo più i grassi polinsaturi.

Ma c’è un problema che rischia di vanificare gli effetti benefici anche della dieta più corretta: si tratta della quantità. È giusto che l’impostazione della dieta sia basata sulla ripartizione percentuale dei costituenti, ma non dimentichiamo che quello che veramente conta è la quantità assoluta. Mangiare troppo rispetto al fabbisogno, anche rispettando le regole della dieta mediterranea, porta diritto all‟obesità che è un importante fattore di rischio per l’arteriosclerosi. Occhio dunque alla quantità degli alimenti e non solo alla ripartizione percentuale dei nutrienti.

Bibliografia

1. USDA’s Food Guide Pyramid Booklet, 1992

2. Hu FB Are refined carbohydrates worse than saturated fat? Am J Clin Nutr. 2010 Jun;

3. Siri-Tarino PW, Sun Q, Hu FB, Krauss RM Metaanalysis of prospective cohort studies evaluating the association of saturated fat with cardiovascular disease. Am J Clin Nutr. 2010 Mar;91(3):535-46.

4. Jakobsen MU et al. Major types of dietary fat and risk of coronary heart disease: a pooled analysis of 11 cohort studies. Am J Clin Nutr. 2009 May; 89 (5):1425-32.

5. Mozaffarian D. et al. Dietary fats, carbohydrate, and progression of coronary atherosclerosis in postmenopausal women. Am J Clin Nutr 2004;80:1175– 84

Autore: Carla Favaro

Comitato scientifico